Un dedalo di corridoi scuri. Parlo dell’albergo. Niente lenzuola né asciugamani. Niente acqua per la doccia. Ma un piccolo lavandino per tutti gli usi. Direi che è sufficiente.

La signora che trascina al piano di sotto la mia valigia è enorme. E’ stata alla reception tutta la notte, non mi sorride troppo. L’Hotel Pesco è nella zona di Djidjolé. E’ un’area in espansione della città, più a sud ovest ci sono le favelas. Per la verità qui a Lomé le favelas non sono così “estreme”. Perché nelle periferie ci sono anche i grandi borghesi che hanno costruito le loro ville. Con presidi militari. Che, paradossalmente, rendono i quartieri periferici “sotto controllo”.
Fuori, questa mattina, vedo solo moto. Macchie di colore che sfrecciano suonando il clacson. Oggi è domenica e le donne e i bambini sono vestiti a festa. Se possibile, più colorati dei giorni feriali. Le famiglie dell’“upper society” hanno vestiti di stoffe e colori identici. Padre, madre e figlioletti.

Con Esso ci dirigiamo verso gli altopiani. Tutto cambia. La vegetazione cambia, i colori cambiano. Il grigio dello smog che domina Lomé lascia il posto al verde lussureggiante delle foreste della zona centrale del Paese. Ancora più al Nord c’è la savana. Ma non ci andremo. Difficile da raggiungere in così poco tempo. E, mi dice Luisa, la nostra coordinatrice operativa del progetto Le BCC con il Togo, ultimamente rifugio di jihadisti in fuga dal Burkina Faso. Non è un posto tranquillo. Evitiamo, quindi.
(Scusate, piccola nota: Burkina Faso significa “uomini liberi”…).

La destinazione del nostro piccolo gruppo – una parte del gruppo – è Amakpapé. Andremo a visitare le comunità del territorio della Forèt d’Amakpape’.

Lungo la strada le macchine sfrecciano veloci. Incontriamo tre camion rovesciati, un quarto (enorme, carico di merci) lo troveremo stasera a sbarrare la strada al nostro rientro. Non mi stupisce. Le strade sono pericolose. Molto. Davanti a noi un furgoncino aperto, c’è un cadavere coperto da un telo colorato. “Sono musulmani, stanno andando a seppellirlo” ci dice Esso. Al ritorno, ai bordi delle strade, vedremo tanti musulmani pregare su piccoli tappeti stesi in fila uno vicino all’altro.

Ottanta chilometri. Ci vogliono due ore per arrivare ad Amakpapé. Qui – in mezzo al nulla, vicino ad una moschea anch’essa in mezzo al nulla – troviamo una cittadella. Davvero, non saprei come chiamarla diversamente.

Istantanee di vita in un villaggio degli Altipiani

La Missione Cuori Grandi è gestita da due donne italiane. Due missionarie cattoliche. Suor Patrizia e Maristella sono arrivate ad Amakpapé nel 2012. All’epoca non ci sono scuole, non ci sono ospedalerie, non ci sono servizi. Non c’è una chiesa. Ma il territorio è popolatissimo, nel piccolo centro intorno alla strada principale e nei raggruppamenti rurali nascosti tra la vegetazione. Circa 12 mila abitanti, di cui la metà sono bambini. La missione costruisce il pozzo dell’acqua, una casa della comunità, i magazzini. Una scuola – “prima di tutto è indispensabile educare e formare” – per 580 bambini, laboratori, una casa per lo studente. Una chiesa (bellissima). Un’infermeria. Casette per mamme sole in difficoltà con i loro bambini. Una cittadella, appunto.

Non è facile. Non serve che lo scriva. Le condizioni sanitarie, economiche, culturali delle comunità sono “immaginabili”. Anzi, forse lo sono per noi che siamo qui. E che vediamo. Per la verità, sono inimmaginabili. E’ un sostegno, per questa piccola comunità, continuo e costante. Qui in Togo si sente la mancanza della famiglia. Anche questo inimmaginabile. E allora, ci vuole tanto coraggio per rimanere. Tanta pazienza. “Tanta fede. Tanto amore”, ci dice Maristella. “Se non hai fede qui non puoi sopravvivere”. Ecco.

E’ lei ad accompagnarci a visitare le comunità con il suo pick-up. Indispensabile in questo posto. Indispensabile per lei, che ogni giorno porta a Lomé, in ospedale o presso i medici specialisti, tutti i malati che in processione si presentano alla missione. Domani, lunedì, porterà due fratelli che stanno perdendo la vista. Al terzo, il più grande, hanno diagnosticato un glaucoma. Probabilmente sarà così anche per i due fratelli.

Indispensabile il pick-up, ma indispensabile anche il supporto economico. Lo Stato non passa nulla, se vai in ospedale ti devi pagare tutto, anche le lenzuola. I bendaggi. I guanti per gli operatori. Oltre alle medicine, ovviamente.

Procediamo tra capanne di fango, paglia e lamiere. Quando piove – se piove – si “sciolgono” e scompaiono. “E si ricomincia tutto”. Piantagioni immense di tek. I terreni sono tutti dello Stato. Il tek è piantato ovunque per chilometri, lo Stato lo vende ed esporta all’estero. E’ un legno resistente. Non muore mai. Lo comprano i cinesi, soprattutto. Tanti baobab, sontuosi, bellissimi. Qui si prepara il succo di baobab, le foglie sono ricche di ferro e si mangiano nell’insalata. E poi i kapokie. Sono alberi meravigliosi. Sembrano donne con gonne immense, le radici si allargano a dismisura. Difficile descriverli, danno il senso della foresta africana.
Ed ancora, maiali. E mucche. I coltivatori le odiano, distruggono i raccolti, c’è tensione con gli allevatori, i peul, che arrivano soprattutto dal Niger.

Il pick-up della Missione “Cuori Grandi”

Kablive è il primo villaggio che visitiamo. Poi Sodjacope. Non so. Difficile chiamarli villaggi. Ne visiteremo un altro. Qui andiamo a conoscere il “capo”. E’ un boss locale. Che ha creato un suo piccolo regno grazie agli “appoggi politici”. Regna incontrastato ma ha anche garantito opportunità di crescita – o forse, direi, di sopravvivenza – alla sua piccola comunità. Qui c’è un bar. Per gli uomini. “Alcolizzati, per lo più” dice Maristella. Un granaio. Un piccolo mulino dove lavorano il mais. Lo trasformano in farine e bevande che vendono in minuscoli sacchetti di plastica trasparente. Un piccolo esempio di sviluppo. Piccolo. Piccolissimo. Commovente.

Ci allontaniamo. I bambini corrono lungo la strada per salutarci. Hanno delle falcate da super eroi. Una donna ci ferma urlando. Ha il marito malato, non sa cosa fare. Forse malaria. Ecco, una questione incomprensibile. Qui si muore soprattutto di malaria. Come sia possibile che non si sia trovata una cura per una malattia così endemica rimane un mistero. Maristella non può accompagnarla al dispensario di Amakpapé, le dà i soldi per prendere un “taxi”.

C’è poco da dire. Forse solo ringraziare. Per tutto. Perché Suor Patrizia e Maristella rimangono lì. Con i loro bambini. Le mamme malate. I giovani studenti. L’aula di fisica. La libreria piena di libri. Il pollaio.
L’elenco sarebbe lungo. E’ un mondo. Circondato da un altro mondo, che rema dalla parte opposta. Sembra una sfida donchisciottesca. Sembra.

Le salutiamo. La strada per Lomé è lunga, la domenica sera il traffico pare impazzito, rimaniamo fermi per ore per entrare in città. Stasera siamo ospiti della Maison des Cooperatives. E dei giovanissimi soci imprenditori. Si presentano. Ci mostrano i loro prodotti. Orgogliosi. Fieri.

Il presidente, Badouin, interviene e motiva i suoi ragazzi. E’ il momento di fare rete. Di cooperare.
Si mangia insieme. Qui il piatto principale è il pesce, si chiama tilapia. L’igname fritto insieme al platano. E il mais, bianco, che sembra una palla collosa. Ma è buono. Anche senza il loro peperoncino.

L’albergo Mint ha alte mura che lo “blindano” dal caos della periferia di Lomé. C’è anche il filo spinato. Qui c’è la rete internet. Asciugamani e lenzuola. Acqua. Addirittura una piscina. Un frigorifero con le bottigliette d’acqua per la notte. Andiamo a dormire. Domani avremo tanti incontri istituzionali. Siamo pronti.

(2. continua)

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