Antonio Genovesi, illuminista napoletano padre dell’Economia Civile, più di due secoli fa scriveva: “Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria, e se potete e quando potete studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più, purché non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”.

Nonostante siano passati più di duecento anni, la massima di Genovesi rimane ancora valida e decisamente attuale: è esperienza comune sentirsi soddisfatti e soddisfatte, anche felici, dopo aver compiuto un gesto altruistico, oppure dopo aver preso parte ad attività che coinvolgono la comunità attorno a noi. Tutte quelle azioni, insomma, che riguardano direttamente noi e le persone che ci stanno attorno: familiari, amici, comitati di quartiere, parrocchie, enti di volontariato o del Terzo settore, e quant’altro.

Oggi nuove ricerche in diversi ambiti scientifici ci aiutano a capire meglio, al netto dell’aneddotica personale, la “legge dell’universo” a cui faceva riferimento Genovesi.

Uno degli esperimenti più ampi e longevi della storia

Lo “Study of Adult Development” – ovvero lo “Studio dello sviluppo adulto” – è uno degli esperimenti condotti in maniera sistematica più longevi della storia: cominciato nel 1938, è in corso ancora oggi. Negli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione, i ricercatori di Harvard partirono da domande di ricerca tanto banali nella loro formulazione, quanto complesse nelle loro risposte: cosa rende una vita felice e piena di significato? È possibile capire in anticipo quali fattori influenzano la vita di chi raggiungerà una vecchiaia attiva e in La rivista delle Banche di comunità E 45 salute? E chi invece non avrà questa fortuna? Quali sono le scelte e gli stili di vita che incidono sulla nostra longevità? Per rispondere a questi interrogativi, vennero, quindi, selezionati 268 tra “i più brillanti” studenti di Harvard (tra di essi anche il futuro presidente John F. Kennedy) e 456 ragazzi provenienti dai quartieri più poveri e svantaggiati di Boston, con lo scopo di intervistare loro e le loro famiglie.

Da allora, la ricerca non si è mai conclusa e continua ancora oggi: per più di ottant’anni, e un totale di quattro generazioni, sono state coinvolte, fino ad ora, più di 2.000 persone, sono stati pubblicati più di 200 articoli scientifici e un totale di 9 libri su questo tema. Quello che emerge da questi studi è che più che la fama o la ricchezza, sono le relazioni umane che influenzano la felicità, intesa come soddisfazione complessiva, delle persone intervistate. L’enorme quantità di dati emersa da una ricerca così vasta ha confermato un forte legame tra una vita soddisfacente e felice e le relazioni personali degli intervistati con le loro famiglie, gli amici e le comunità.

Il peso e l’importanza di questi fattori sulla salute, fisica e mentale, sono paragonabili a quelli delle componenti genetiche: diverse analisi, ad esempio, hanno verificato come il livello di soddisfazione delle persone nei confronti delle loro relazioni all’età di 50 anni sia un fattore predittivo della salute fisica migliore dei livelli di colesterolo. In altre parole, coltivare comunità coese, dove ognuno possa sentirsi parte attiva della collettività stessa contribuendo al bene comune, è un ottimo modo per migliorare la salute fisica e mentale delle persone, da un lato, e restituire un senso di felicità e soddisfazione nella vita di ciascuno, dall’altro. Osservando le cose da questo peculiare punto di vista, il ruolo delle Banche di Credito Cooperativo all’interno delle comunità assume un respiro più ampio: non solo contribuire alla riduzione delle disuguaglianze, allo sviluppo economico e alla stabilità finanziaria, compiti comunque fondamentali nell’ecosistema socioeconomico di oggi; diventa rilevante in quest’ottica anche la funzione di banca di relazione che, oltre a creare un legame di fiducia tra istituto e famiglie (o imprese), concorre a rafforzare le relazioni personali, più sfumate e meno quantificabili dei risultati economici, ma non per questo meno importanti per la salute delle persone e della comunità stessa.

La cooperazione come chiave evoluzionistica di successo

La massimizzazione del profitto individuale, anche a scapito di qualsiasi altro elemento sociale e culturale, è stata al centro della teoria economica per buona parte del secolo scorso. Tuttavia, i limiti e le criticità di tale modello sono emersi prepotentemente, con tutte le contraddizioni che ne conseguono. Negli ultimi anni, infatti, l’importanza della cooperazione e il modello di gestione comunitaria sono stati riconosciuti anche a livello accademico quali forma di successo. Come sottolineato da Stefano Zamagni nel suo volume “La cooperazione presentata ai millennials”, Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia nel 2009, ha dimostrato che i gruppi di individui sono capaci di gestire in maniera efficiente le risorse di cui dispongono, a patto che siano rispettate le seguenti condizioni: – una forte identità del gruppo e la chiarezza del fine perseguito; – proporzionalità tra costi e benefici, in maniera da ricompensare in modo equo gli sforzi dei singoli; – condivisione delle decisioni che vanno prese in maniera comunitaria, nel rispetto dei principi democratici; – monitoraggio continuo, perché un bene comune è sempre esposto al rischio di comportamenti opportunistici; – una governance e una gestione policentrici. Sempre Zamagni prosegue notando come, nel contesto storico, sociale e culturale odierno, “la forma di gestione comune che soddisfa le condizioni di cui sopra è quella di tipo cooperativo. Non però quella della cooperativa mono- stakeholder, che non dà garanzie adeguate al riguardo. Occorre pensare piuttosto al modello della cooperativa multi-stakeholder, se si vuole dare vita ad una organizzazione ottimale di offerta del bene comune”8. In altre parole, la cooperazione rappresenta una forma di successo, oltre a essere una modalità equa e democratica, nella gestione di risorse comuni. Anzi, sembrerebbe che questa sia anche una caratteristica peculiare nel contesto evolutivo. Come ha evidenziato il ricercatore Marco Annoni nel suo libro “La felicità è un dono. Perché l’altruismo intelligente è la scelta migliore che puoi fare”, edito da Sonzogno, “la cooperazione e l’altruismo possono emergere per selezione naturale, ma tale processo presuppone comunque una competizione evolutiva tra un ‘noi’ e un ‘loro’. La questione cruciale diventa come definiamo chi siamo noi e chi sono loro, e cioè chi riconosciamo come interno o esterno al perimetro del nostro ‘cerchio morale’”. In conclusione, gli insegnamenti di Antonio Genovesi non solo sembrano più attuali e urgenti che mai nel nostro contesto sociale, ma continuano a trovare conferme anche in diversi ambiti della ricerca scientifica e accademica. Tenerli a mente come punto di riferimento nella quotidianità è un modo per far prosperare le nostre comunità e, al contempo, restituire un significato più profondo alla vita di ciascuno di noi, come hanno dimostrato i ricercatori di Harvard.

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