8 novembre 2022. Lasciamo Ambato alle sette. Stamattina Chimborazo. Da Ambato fino al rifugio abbiamo 60 chilometri di salita. Indigenza. Questa è una zona di vera indigenza. Le comunità – passiamo vicino ai Chibuleo prima, la comunità cui appartengono le donne direttrici che abbiamo conosciuto ieri, poi ai Tomavela – lavorano la terra.

Ma la terra – si sa – non è infinita. Aumentano invece le persone. Gli appezzamenti di terreno di padre in figlio, di generazione in generazione, diventano sempre più piccoli. Minuscoli. Non sono sufficienti. I giovani emigrano, se ne vanno. Nel corso degli anni il FEPP ha fatto un grande lavoro per aiutare gli indigeni a comprare le terre dai latifondisti, ma non si può vivere di sola terra.

“Il primo morto ammazzato nella guerra per le terre fu ucciso qui nel 1974”. Racconta Bepi: “Si chiamava Cristóbal Pajuña, era il dirigente della Precooperativa Rumipata-Pacobamba. Ma è stata anche la prima volta che siamo riusciti a far mettere in prigione per nove anni il mandante dell’assassinio, il latifondista Tobías Chávez. Quando andai a parlare con il Governatore, lui mi disse: “Nessuno viene ad insegnarmi quello che devo fare in casa mia” (stessa cosa, mi ricordo, successe a Bepi quando andò a parlare con l’arcivescovo di Quito della Fondazione Tierra Nueva!). Chavez dopo 9 anni uscirà di prigione, ma verrà ucciso proprio dalla sua famiglia, dai figli, e sempre per una questione di possesso delle terre. Raccontata così forse non si coglie la portata della storia. Non si coglie il senso. I latifondisti mantenevano gli indigeni di queste terre in uno stato di violenza continua e sopruso.

Il racconto della costruzione della strada che conduce a Salinas forse rende meglio l’idea. Gli indigeni venivano prelevati subito dopo la messa della domenica dai Cordobes, la famiglia latifondista proprietaria delle terre di Salinas. Legati con il fil di ferro per le dita delle mani, a due a due, e costretti a lavorare di piccone e badile fino al martedì successivo. Senza cibo. Dormendo in capanne di paglia. La “leggenda” narra che uno di questi “schiavisti” che lavorarono a fianco dei Cordobes per la costruzione della strada scappò nel ’48 in Argentina. Il suo nome era Eichmann, il gerarca nazista, catturato dal Mossad nel 1960 e giustiziato nel 1962. Storie di violenza, di degrado umano, di paura e povertà.

Nel frattempo saliamo. Qui è più difficile coltivare. È più difficile vivere. Fa freddo. Le coltivazioni gelano, si perdono i raccolti. I contadini lavorano con la zappa legati con le corde per non cadere. Le pendenze sono troppo forti, la terra scivola giù ad ogni temporale. Si coltivano patate e fave. E carote. C’è una piccola comunità che le coltiva. La comunità delle carote. Ma le monocoltivazioni non sono sostenibili nel tempo. Le casette hanno tetti di zinco e pareti di blocchi, un tempo erano di paglia. I pochi indigeni che vivono queste terre hanno cominciato anche ad allevare animali. Ovini e bovini. Forme di allevamento meno rischiose dell’agricoltura ma più invasive e meno ecosostenibili. Superiamo un mattatoio. Cominciamo a vedere più alberi. Il pino radiata e il pino patula sono il frutto di campagne per il rimboschimento. Non crescono bene per il vento ma sono alberi pionieri, uno dei progetti del FEPP si chiama Chimborazo verde.

Saliamo ancora. Superiamo il paramo e andiamo ancora più su. Oltre i 4 mila metri è deserto. Un vero deserto di sabbia. Elegantissime vigogne sfilano a fianco del nostro pullman. Sono animali della famiglia dei lama e degli alpaca, non strappano l’erba perché sono senza unghie, hanno dei cuscinetti sotto le zampe.

Taita Chimborazo

E siamo sul Chimborazo. Ci raggiungono Olga e Secundo, indigeni nativi di questo territorio. Ci racconta Secundo che queste terre erano in mano di una sola famiglia, i Garcia, ma che poi i loro genitori nel 1975 le hanno acquistate. Olga ci canta la canzone della cerva in lingua quechua. “Se voi siete contenti anche papà Chimborazo è contento ed allontanerà le nuvole prima del vostro cammino”. Ecco, il Chimborazo, 6.310 metri, la cima più alta delle Ande dell’Ecuador, è Taita Chimborazo. Papà Chimborazo. E prima di salire preghiamo con Olga e Secundo. Chiediamo il permesso per iniziare la scalata a lui e alla madre Terra. Perché la cima di papà Chimborazo è il punto più distante dal centro della Terra. E il più vicino al sole.

Arriviamo fino ai 5 mila metri. L’aria è rarefatta. Facciamo finta di nulla ma il respiro si fa più affannoso. Ma la bellezza. La Bellezza (il “delirio” di Simòn Bolivàr). Grazie papà Chimborazo. Ci hai allontanato le nuvole. Ora, mentre ci allontaniamo, inizia a nevicare.

Salinas

Salinas. Ci dirigiamo verso Salinas. A destra una casa comunale costruita grazie al Credito Trevigiano. Che ha donato anche un’alpaca ad ogni famiglia e due maschi riproduttori per tutta la comunità. Ora gli alpaca sono 200 e sono diventati una fonte importante di reddito. La comunità successiva, Pachancho, ha casette minuscole. Si riscaldano bruciando i rami dei pini. Prima lo facevano con lo sterco degli animali. Qui il FEPP ha contribuito a piantare 5 milioni di alberi.

Prima di raggiungere Salinas facciamo tappa all’asilo nido Jardin Mamà Catalina. Dall’Italia abbiamo portato vestiti e scarpe per i piccoli. C’ero già stata. L’emozione è la stessa. I bambini giocano con noi, qualcuno piange perché crede che siano arrivati i dottori. Hanno tutti le guance rosso fuoco per il freddo, rimarranno in questo asilo fino ai 4 anni.

Poi due anni di vuoto prima di cominciare le elementari. “Bambini fortunati” dice Bepi. Anche questa volta ci accoglie Viviana, la giovanissima direttrice, figlia di una donna piccolissima che incontreremo poco dopo a Salinas e che fila maglioni di alpaca. Viviana tiene in braccio un nuovo bambino, è arrivato oggi. Si chiama Damian, sorride a tutti. La scuola è stata costruita grazie alle donazioni della BCC di Alba, del Credito Trevigiano (oggi Banca delle Terre Venete) e di Piove di Sacco (ora Banca Patavina).

Entriamo in città. Salinas è molte cose. Diventata un modello e un caso di studio. “Fonte di ispirazione per molte comunità” dice Bepi. Che qui è arrivato con l’Operazione Mato Grosso nel 1971. Una Salinas che ora – fortunatamente – non c’è più. In quegli anni la comunità aveva un tasso di mortalità infantile altissima (4,5 bambini morti su 10).

C’era freddo, miseria, violenza e sfruttamento delle famiglie latifondiste. Analfabetismo (c’era solo una scuola difficile da raggiungere dalle comunità più lontane). La popolazione veniva chiamata “indios” dagli indigeni delle comunità più lontane. “E noi siamo arrivati con una proposta. Abbiamo portato l’acqua potabile e costruito una casa comunale. Ci hanno voluto bene. Eravamo i gringos buoni perché abbiamo vissuto con loro e come loro, in totale povertà. Senza servizi igienici. Al freddo. I geloni me li ricordo ancora”.

Il laboratorio della piccola azienda di cioccolato a Salinas

La proposta è una proposta che nasce da un’idea: creare una finanza popolare, dare la possibilità agli indigeni – attraverso il microcredito – di crescere, di sviluppare attività, di creare un’economia di mercato. Di sfruttare le risorse del territorio rendendole beni commerciabili. Così la cioccolateria, il caseificio, la filanda, le cooperative di ceramiche, di oli essenziali, di marmellate, la produzione di sale. Tutto parte dalla Cooperativa de Ahorro y Credito che – dice Bepi – è la cooperativa più aperta rispetto a quelle delle produzioni che sono settoriali. E dalla Cassa – oggi gestita da Cesar Chamorro, giovanissimo, giacca troppo grande e un tatuaggio con il cuore trafitto sulla mano – tutto si è mosso e continua a muoversi.

Bepi rimane a Salinas cinque anni. Padre Antonio Polo, parroco di Salinas – il suo compagno visionario – rimane tutta la vita. Oggi lo incontriamo. E’ un personaggio, una figura che ha un carisma che io non ho mai ritrovato in nessun altro. E’ rimasto qui, in un minuscolo appartamento. Un san Francesco degli anni Duemila. Lui ci parla di fedeltà, impegno, pazienza. Di servizi e di motivazione. Perché gli uni non escludono l’altra anzi, la motivazione è fondamentale come lo sono i servizi. Se con motivazione.

Bepi, padre Antonio e – terzo – arriva padre Pio Baschirotto, ora parroco della diocesi di Simiatug, non lontana da Salinas. Non dimenticherò mai la visita alla sua hospedería a Quito, tanti anni fa. Sono i tre italiani che, arrivati negli stessi anni in Ecuador, hanno vissuto per il riscatto dei campesinos mettendo in gioco tutto. Anche la loro vita.

Un tramonto di fuoco ci accompagna sulla via del ritorno verso Ambato.

Il diario della terza giornata di viaggio: da Pastocalle a Santa Rosa

Il diario della quinta giornata di viaggio: Baños

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