“Le riforme istituzionali rappresentano una precondizione dei sussidi e dei prestiti che l’Italia ha ottenuto con il PNRR. Ma noi abbiamo disancorato del tutto questo tema dal nostro dibattito pubblico”. Inizia così l’intervista al giornalista e saggista, Ferruccio De Bortoli a cura di Giampiero Guadagni, con la quale la Rivista “Credito Cooperativo” avvia una inchiesta per approfondire (grazie al contributo di autorevoli interlocutori del mondo politico ed economico) un tema escluso dal “grande dibattito”, ossia il “costo” che si dovrà prevedere – in termini economici e non solo – delle attese e necessarie riforme, indispensabili a “mettere a terra” i contributi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

L’obiettivo è quello di offrire un quadro il più possibile ampio dello scenario che potrebbe modificare in modo sostanziale l’assetto istituzionale del Paese e, in ultima analisi, anche le dinamiche economiche locali. Dentro le quali vivono e lavorano le banche cooperative di comunità.

Riportiamo di seguito il testo integrale della prima puntata della nostra inchiesta, l’intervista a Ferruccio De Bortoli sul rapporto tra riforme e crescita economica del Paese.

Direttore, l’Europa in sede di PNRR ci ha chiesto una serie di riforme. Perché?

Ma perché ha un interesse preciso che l’Italia aumenti il proprio prodotto potenziale, cioè la capacità di crescere. Un’Italia che non cresce è un problema per tutta l’Europa. L’Italia che rischia di non essere del tutto accountable dal punto di vista del debito – tra l’altro bisognerà vedere come si svilupperà in futuro il nuovo patto di stabilità e di crescita – rischia di appesantire tutto il percorso di crescita della Ue, soprattutto per quanto riguarda alcuni traguardi come la transizione digitale e la transizione energetica. Eppure è come se noi avessimo considerato i 200 miliardi del PNRR come una sorta di conto corrente di cui avevamo la disponibilità in quanto membri fondatori dell’Unione europea. In realtà sussidi e prestiti sono stati dati appunto a patto che l’Italia faccia alcune riforme istituzionali che aumentino la produttività del sistema e il suo valore aggiunto. Un aumento di cui beneficerebbero salari e stipendi, molto più bassi rispetto alla media europea.

Ci sono poi le riforme istituzionali non strettamente legate al PNRR. Ci saranno effetti economici sulle nostre tasche se non si metterà mano anche a queste, spesso sono descritte come lontane dagli interessi concreti degli italiani?

Su questo ho qualche dubbio. Intendiamoci: se le istituzioni funzionano meglio; se non abbiamo Governi che cambiano ogni anno; se non abbiamo un conflitto perenne, quasi endemico, tra politica e giustizia; se accade tutto questo è chiaro che il Paese ne riceve un vantaggio sotto tutti gli aspetti, a partire dalla qualità della sua democrazia e della sua cittadinanza. E consideriamo che l’economia è condizionata molto dalla psicologia, dalle attese, dalle paure, dai pregiudizi a volte inesistenti. Però io ritengo si sia sopravvalutato molto l’effetto economico delle riforme istituzionali come quelle proposte nel 2016. In quell’occasione, ad esempio, Confindustria si attendeva una crescita del pil del tutto ipotetica. Quando parliamo della Costituzione dobbiamo svincolarci dall’utilitarismo economico.

Nel corso degli ultimi anni si registra un costante declino della partecipazione elettorale. Le riforme possono essere un antidoto o al contrario l’astensionismo può impattare negativamente sul cammino delle riforme?

Per prima cosa ci siamo dimenticati che il voto è un diritto-dovere e che fino a pochi anni fa l’astensione veniva persino sanzionata. Nella nostra Costituzione il cittadino è chiamato a partecipare alle scelte della comunità. Certamente le riforme possono aumentare la partecipazione. Soprattutto se un impianto come il nostro è aggiornato tenendo conto della sua funzionalità e della sua efficienza, che va di pari passo con l’equità: penso alla riforma Cartabia della giustizia che ha introdotto l’idea che se il servizio è efficiente e breve può essere equo.

Nelle settimane scorse la ministra per le Riforme Casellati ha svolto una sorta di consultazioni con tutte le forze politiche sulle ipotesi di nuove forme di Governo. Tra presidenzialismo o semipresidenzialismo alla francese, sembra rafforzarsi l’ipotesi premierato. Quale è la strada più percorribile?

Secondo me l’elezione diretta del Presidente della Repubblica è una assoluta sciagura per il nostro Paese. E non credo sia il modo per far partecipare meglio i cittadini. Noi, nell’instabilità politica della Prima e della Seconda Repubblica, abbiamo comunque avuto Capi di Stato che hanno saputo adattare il proprio ruolo alle esigenze e interpretare la garanzia e l’unità del Paese. Non possiamo rinunciare ad una figura costituzionale che interpreta l’unità del Paese. L’elezione indiretta ha i suoi pregi. La democrazia diretta si è dimostrata una chimera. Penso che un premierato forte sia preferibile, ma sarebbe estremamente utile la sfiducia costruttiva come nel sistema tedesco: tu puoi sfiduciare il Governo ma devi avere una soluzione alternativa.

Delicata anche un’altra riforma costituzionale, che io non farei: l’articolo 67 della Carta: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Una grande idea dei costituenti, che erano saggi e previdenti. A maggior ragione se si va avanti con l’autonomia differenziata: gli eletti al Senato e alla Camera sono i rappresentanti dell’interesse generale, non del loro collegio elettorale. Possono convivere le due forme di rappresentanza in maniera intelligente, altrimenti alla fine l’eletto è una semplice protuberanza politica di una comunità di interessi. L’interesse nazionale non è la sommatoria degli interessi locali.

A proposito, come valuta il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata?

Il disegno di legge dà attuazione a quanto previsto dalla riforma costituzionale del 2011, il Titolo V, a mio giudizio la più colossale riforma autogoal del centrosinistra nell’inseguimento dell’idea federalista della Lega. Dobbiamo uscire da un equivoco: se si trattasse semplicemente di trasferire ogni spesa storica alle Regioni che sono più efficienti dello Stato a gestire alcune competenze e garantire ai cittadini con le stesse risorse servizi di maggiore qualità, beh non ci sarebbe nulla da dire. Certo, questo crea problema di differenziazione rispetto alle Regioni che non hanno chiesto l’autonomia differenziata e faticano anzi ad avere livelli essenziali di prestazioni come quelli delle regioni più ricche. Io penso che le altre Regioni di fronte al trasferimento di risorse pubbliche e fiscali alle Regioni maggiori vorrebbero come previsto dalla legge avere servizi migliori, che non riescono a garantire con le risorse a loro disposizione. A questo punto la fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni avrà un costo. Prima di andare avanti con la riforma io vorrei sapere qual è questo costo. Perché questo costo poi non potremo certamente finanzialo in deficit e in debito. Ma con entrate di altra natura. E chi le paga queste entrate di altra natura?

In tutto questo scenario, quale legge elettorale si addice maggiormente alla realtà italiana?

La legge che funziona meglio tra quelle approvate dopo il referendum Segni all’inizio degli anni ’90 è quella a doppio turno dei sindaci, che ha creato stabilità. Anche se i secondi mandati sono quasi sempre stati inferiori in termini di qualità.

Direttore, di recente il Governatore della Banca d’Italia Visco ha affermato che la riforma del Credito Cooperativo ha permesso di preservare il ruolo di sostegno alle imprese nei territori di insediamento nel difficile contesto che ha caratterizzato gli ultimi anni. Condivide la valutazione? E per l’Italia del XXI secolo che valore può avere questo particolare modello di mutualità?

La riforma ha consentito di aggregare il Credito Cooperativo creando delle economie di scala e soprattutto introducendo delle governance sempre meno legate alla politica locale. Ovviamente la necessità di mercato ha spinto per la creazione di cross più grandi e per fortuna sono nati due grandi gruppi bancari di dimensione nazionale. È chiaro che il mondo cooperativo può dare una risposta complementare in qualche caso alternativa in termini di offerta di servizi bancari, più vicina alle necessità dei territori, tenendo conto che i grandi gruppi stanno scomparendo dal punto di vista della presenza fisica proprio sul territorio. Ma soprattutto la riforma va vista nell’idea di un’attività bancaria non necessariamente classica, ma che può passare attraverso il fintech: in modo che il cittadino nella sua qualità di cittadino sia sempre più, mi si passi il pessimo termine, “bancabile”: la maggioranza dei cittadini che va a chiedere un prestito non lo ottiene perché non ha una garanzia e a volte persino il lavoro che svolge non è una garanzia per avere un credito bancario. E questo è un grande limite della nostra cittadinanza reale.

(1. continua)

Potrebbe interessarti anche

Cassa Centrale Banca. Assegnate le borse di studio in memoria di Giulia Tita e Luigi Giuriato

Federazione Siciliana. Conclusa l’iniziativa “Restart”, sei progetti imprenditoriali vincitori

Alleanza delle Cooperative. Gardini riconfermato alla presidenza

Le BCC a sostegno della popolazione ucraina

Attenzione alle truffe perpetrate a nome di “BCC Federcassa Spa”

Resta aggiornato sul mondo del Credito Cooperativo