6 novembre 2022. La domenica a Quito comincia con la messa nella chiesa salesiana di Maria Ausiliadora. E’ la chiesa fondata dal missionario salesiano Padre Carollo e anche il motivo della sua crisi spirituale. Costruire una chiesa in una zona “ricca” e rivolta a devoti “ricchi” fu troppo per lui. Lasciò tutto, andò a vivere in due piccole stanze, senza luce e senza acqua, nella periferia sud di Quito. Fu lui a creare qui in città la Banca della Provvidenza, la Fondazione Tierra Nueva e l’ospedale Un canto alla vita. Morì prima di terminarlo ma l’ospedale è stato finito grazie a prestiti di Cassa Padana e di Cassa Centrale Banca.

Usciti dalla chiesa due università, quella dei Gesuiti e quella più tecnica dei Salesiani, fondata su un terreno acquistato da Monsignor Candido Rava. In giro moltissimi ciclisti, alcune zone del centro sono chiuse alle macchine la domenica. Un’enorme città in parte ciclabile e pedonalizzata. Pare un po’ incredibile. Per strada incontriamo tanti campesinos con la loro capra. Vendono latte caldo, lo mungono direttamente sul marciapiede. Il latte di capra pare che abbia proprietà “speciali”. Scopro oggi che esistono tanti devoti al latte di capra.

Questa seconda giornata è interamente dedicata a Quito. Ci dirigiamo verso El Panecillo, il “piccolo pezzo di pane”. Chiamano così questa collina dalla forma arrotondata in mezzo alla città. Attraversiamo le gallerie, costruite dagli italiani a metà degli anni Settanta. Erano anni in cui le grandi opere della città erano costruite da italiani. Poi arrivarono gli argentini. Ora ci sono i cinesi.

Superiamo il cimitero di San Diego, uno dei più grandi dell’Ecuador. In questi giorni qui nel paese andino proseguono le festività per il giorno dei morti. Gli ecuadoriani organizzano pic nic tra le aiuole del cimitero per celebrarli e fare festa. Gli indigeni non credono nella morte come fine di tutto e così portano nei cimiteri cibo e decorazioni che offrono ai defunti. Si mangiano le guaguas de pan, le bamboline dolci, e si beve la colada morada, una miscela di frutti e spezie e farina di mais. Le strade sono piene di decorazioni, i bambini sono mascherati, sfilano processioni di morti e di spettri. La sensazione è di trovarsi catapultati in una strana festa di Halloween. Fuori tempo e fuori luogo.

Ci inerpichiamo verso El Panecillo. Alla nostra destra il Pichincha, il maestoso vulcano che fiancheggia la città a pochi chilometri di distanza. L’ultima eruzione ci fu nel 1999 e ricoprì l’intera città di centimetri e centimetri di cenere. Salendo, ancora una volta l’aspetto delle case comincia a cambiare. Ci stiamo abituando alle “diverse” Quito ormai. Da sopra si coglie bene la profondità di questa stridente differenza. Da una parte i chilometri della Quito alta. Quella più ricca, dei grattacieli. Dall’altra, la città bassa. Quito è una città immensa, si estende per quasi 50 chilometri e ha oltre due milioni di abitanti. El Panecillo la divide in due, il Nord e il Sud. Non è una questione di latitudine. Difficile pensare che la città che si vede da una parte sia la stessa che si vede arroccata, ingarbugliata, confusa, caotica e – forse si può usare l’unica parola che rende l’idea – povera, tanto povera, dall’altra. “I problemi – dice Bepi – non vengono dalla Quito povera ma da quella ricca”.
In alto, sopra El Panecillo, la Vergine di Quito, la donna dell’apocalisse, un’enorme statua di 45 metri in alluminio. E’ una vergine alata, la vediamo anche dal nostro albergo tanto è alta e imponente. A costruirla, lo stesso Ordine degli Oblati che commissionarono l’altrettanto imponente Basilica del Voto Nazionale, la più grande Chiesa in stile neogotico di tutta l’America Latina.

Scendiamo. Il centro di Quito è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità nel 1978. Quito è la città dell’America Latina con la più ricca collezione di arte coloniale. Lo dimostra il centro storico che è già un’opera d’arte indigena e meticcia. 40 chiese, servirebbero giornate intere. Noi andiamo a visitare la chiesa della Compagnia di Gesù, una delle più importanti opere barocche del Sud America con il suo interno completamente ricoperto d’oro, e la Chiesa di San Francisco con il suo meraviglioso chiostro.

E poi Plaza de la Independencia e i palazzi governativi civili e religiosi, la Cattedrale, il Palazzo Arcivescovile e del Governo. La Calle de la Ronda e i suoi palazzi coloniali. Vicoli, stradine. Scorci talmente belli da togliere il fiato. Si respira ovunque l’essenza coloniale di questa città. Colori e profumi che aleggiano nell’aria. Pur nel caos, nello smog, nel traffico. E poi ci sono le persone. Tanti anziani seduti sulle panchine delle piazze principali. Tanti bambini, e cani, e donne con gli abiti tradizionali. C’è chi da una parte predica, in Plaza de la Independencia. Chi vende. Tanti vendono cose. A volte indecifrabili. Per noi ovviamente. Mais arrostito, fave bollite. E gelati, banane fritte, uova di quaglia sgusciate e sode. Frutta. Succhi. L’artigianato locale è un’esplosione di luci e di colori dell’arcobaleno. Compriamo. Lo facciamo un po’ tutti. Ci restituiscono grandi sorrisi, strette di mano. A volte anche abbracci. Ci basta.

Domani mattina lasciamo Quito e ci muoviamo verso sud.

Il diario della prima giornata: Cochasqui, Otavalo e San Clemente

Il diario della terza giornata di viaggio: da Pastocalle a Santa Rosa

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